IL RAPPORTO VITTIMA-COLPEVOLE NEL NUOVO SISTEMA DI GIUSTIZIA RIPARATIVA
Avv. Filomena Masi
Il rapporto vittima - colpevole è un aspetto fondamentale e che da sempre ha suscitato grande interesse nel contesto legale, soprattutto nell'ordinamento penale.
In linea generale possiamo affermare che per rapporto vittima-colpevole ci si riferisce alla dinamica tra la persona che ha subito un danno o un reato (la vittima) e quella responsabile di causare il danno o commettere il reato (il colpevole).
Tradizionalmente, il sistema giudiziario si concentra sulla punizione del colpevole, con l'obiettivo di mantenere l'ordine sociale e di dissuadere futuri comportamenti illeciti.
Tuttavia, questo approccio non sempre tiene conto delle esigenze della vittima o delle possibilità di recupero del colpevole.
Su questo rapporto molto ha inciso e incide il modello di giustizia riparativa perché questa, come già affermato, si basa sulla riparazione del danno causato dal reato, coinvolgendo attivamente sia la vittima che il colpevole nel processo di risoluzione del conflitto.
L'obiettivo principale è riparare il tessuto sociale attraverso la responsabilizzazione del colpevole e il soddisfacimento dei bisogni della vittima.
Per "vittima del reato", si intende la persona fisica che ha subito direttamente qualsiasi tipo di danno, sia esso patrimoniale o non patrimoniale, a causa del reato.
Questa definizione include anche i familiari della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che hanno subito un danno in conseguenza di tale morte. La definizione fornita dal legislatore è ampia e comprende non solo i soggetti comunemente identificati come vittime "dirette" del reato, come la persona offesa, il danneggiato e la parte civile, ma anche altri soggetti.
In particolare, sono equiparate alle vittime del reato anche le surrogate victims, ovvero le "vittime di un reato diverso da quello per cui si procede" (art. 53, comma 1, lett. a).
Nonostante la denominazione possa suggerire altrimenti, queste non sostituiscono le vittime originarie, ma sono considerate vittime aspecifiche.
Tali surrogate victims possono accedere ai programmi di giustizia riparativa quando sono vittime di un reato dello stesso tipo o appartenente alla stessa categoria di reati di quello per cui si procede[1].
Riguardo alla nozione di "vittima di reato", è importante sottolineare che il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, che attuava la direttiva 2012/29/UE, nonostante la chiara definizione contenuta nell'articolo 2 della fonte europea, ha evitato di affrontare un concetto giuridico difficilmente assimilabile alle tradizionali posizioni soggettive della "persona offesa" e della "persona danneggiata" dal reato.
La direttiva europea non mirava principalmente a innovare sui poteri e sulle facoltà processuali della vittima, concentrandosi invece sull'obiettivo di suggerire una certa uniformità negli ordinamenti dei Paesi membri, nel rispetto dei principi delle legislazioni nazionali, per quanto riguarda i diritti alla partecipazione processuale.
L'uso del termine generico "vittima" aveva principalmente lo scopo di prevedere uno statuto che riconoscesse alla vittima, indipendentemente da un procedimento penale, un insieme di diritti ben descritti nell'articolo 9 della direttiva, sintetizzabili nel concetto di "assistenza".
Con la Cartabia è stata introdotta una definizione di "vittima" che riproduce integralmente il testo dell'articolo 2 della direttiva, con l'eccezione di un punto: l'inclusione, nella nozione, anche della "parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso" che abbia subito un danno in conseguenza della morte del partner derivata da reato.
In questo modo, il partner viene equiparato al famigliare dell'ucciso, estendendo la tutela della vittima "indiretta" anche a unioni civili in cui manca la convivenza, requisito necessario per le relazioni intime.
L'obbligo di accertare la stabilità e la continuità della relazione, necessario per le relazioni intime, può essere omesso quando l'unione è stata formalizzata in un atto pubblico riconosciuto dalla legge.
Con l'implementazione completa della definizione di "vittima" prevista dalla direttiva 2012 nel nostro ordinamento, è probabile che si verifichino ripercussioni nell'interpretazione giurisprudenziale dei poteri e delle facoltà attribuite dalla nostra procedura penale alle persone fisiche indicate come persona offesa o danneggiata, poiché la direttiva non riconosce uno statuto vittimario alla persona giuridica[2].
riguardo al rapporto tra vittima e colpevole, è essenziale sottolineare che gli elementi chiave della giustizia riparativa includono: il ripristino del controllo del processo da parte dei protagonisti, cioè le vittime e gli autori del reato; la rivalutazione della vittima all'interno del processo, consentendole di determinare le modalità di compensazione sia a livello morale che materiale; l'instaurazione di un nuovo concetto di responsabilità da parte dell'autore del reato nei confronti della parte lesa; il coinvolgimento della comunità nel ripristino del sistema di giustizia; e l'introduzione di nuove figure professionali indipendenti dall'amministrazione della giustizia.
In questo contesto, si prospetta un coinvolgimento attivo da parte della vittima, dell'autore del reato e della comunità civile nella ricerca di soluzioni per soddisfare le varie esigenze emerse a seguito del reato. Questo modello di giustizia si basa principalmente sull'ascolto e sul riconoscimento reciproco.
Attraverso la giustizia riparativa, l'obiettivo non è perseguire la punizione dell'autore del reato, bensì ripristinare il legame con la società che è stato compromesso dall'atto criminoso. Questo approccio favorisce un contatto diretto tra la vittima e l'autore del reato, consentendo alla prima di esprimere i propri sentimenti ed emozioni legati al danno subito, mentre il secondo assume la responsabilità delle proprie azioni.
Sul punto, giova rammentare che il limite intrinseco del tradizionale processo penale sembra essere il suo tentativo di rispondere alle necessità della vittima esclusivamente attraverso la determinazione della pena, trascurando di indagare sul reale bisogno della persona offesa: ovvero, superare il trauma. Fondamentalmente, il procedimento penale sembra essere vincolato più al desiderio di vendetta che a quello di giustizia.
Il primo contributo positivo della giustizia riparativa, in questo contesto, risiede nella maggiore soddisfazione che la vittima trae dalla riparazione, a differenza delle forme tradizionali di giustizia.
Si parte dal riconoscimento del bisogno della vittima di fare chiarezza su quanto accaduto, offrendole la possibilità di affermare che ciò che è avvenuto non avrebbe dovuto accadere, e di farlo addirittura in collaborazione con l'autore del reato.
La maggiore soddisfazione della vittima deriva dall'ottenere la riparazione dei danni inflitti dal reato e dal percepire risultati tangibili provenienti dal processo riparativo svolto.
Attraverso l'implementazione di pratiche relazionali e comunicative, la vittima trova risposta a molti dei suoi comuni interrogativi, come ad esempio: "Perché? Perché proprio a me[3]?"
L'accettazione consapevole della violenza subita ha un impatto positivo sulla capacità della vittima di affrontare le conseguenze psicologiche. È noto, infatti, che il reato può comunemente generare sintomi post-traumatici da stress, caratterizzati da un'invadente e persistente ripetizione del trauma e dell'esperienza negativa vissuta.
Numerose ricerche hanno esaminato l'effetto delle pratiche riparative dal punto di vista psicologico, sostenendo che tali strumenti possono influire positivamente sulla gestione di questi sintomi.
In particolare, si è osservato che riducono la frequenza di disturbi da stress e le reazioni di rabbia e paura in misura maggiore rispetto alla consapevolezza della privazione della libertà del reo, che deriva dall'irrogazione della pena detentiva.
Le vittime coinvolte nei percorsi riparativi percepiscono maggiormente il senso di giustizia, apprezzando il valore degli incontri e ritrovando più equa la sanzione.
Di conseguenza, la fiducia nelle istituzioni giudiziarie si rafforza grazie al delitto riparato[4].
Sebbene la vittima abbia diritto a una riparazione del danno, è innegabile l'interesse pubblico nel processo di risoluzione del conflitto, che non può risolvere tutte le questioni come se fossero strettamente private.
Tuttavia, è importante notare che la giustizia riparativa può incorrere nei rischi di una vittimizzazione secondaria, dove l'aggressore nega la propria responsabilità, causando ulteriore frustrazione e delusione per le vittime.
La prevenzione di tali rischi potrebbe avvenire attraverso l'adeguata preparazione degli incontri e garantendo che le vittime partecipino quando sono pronte, rispettando le condizioni per accedere alla procedura, come il consenso della vittima e del reo, di cui si dirà meglio infra, e impiegando mediatori adeguatamente preparati per gestire il conflitto[5].
Dopo aver esaminato gli impatti positivi delle pratiche di mediazione per le vittime, è essenziale riconoscere che tali approcci sono altrettanto consoni alla prospettiva del reo, contribuendo al conseguimento di obiettivi di risocializzazione.
Le tradizionali finalità di retribuzione[6] e prevenzione generale[7] hanno spesso portato all'abbandono del reo alle soglie del carcere, mentre la prevenzione speciale[8] ha garantito la neutralizzazione dell'autore del reato attraverso l'ammaestramento basato sull'inflizione del male o pratiche di "medicalizzazione del soggetto[9]".
Il concetto comune di risocializzazione, basato sul binomio lavoro-istruzione, si focalizza sulla coercizione applicata per favorire il recupero del reo.
Tuttavia, con la mediazione si assiste a un'evoluzione dell'idea di risocializzazione che mostra un progressivo distacco da metodi e tecniche coercitive.
Invece di seguire una logica coercitiva nel trattamento, la mediazione diventa un percorso "assistito" che aspira a un approccio di "inclusione" della persona autrice del reato.
L'approccio a una nuova interpretazione della "risocializzazione" si basa su un sistema di terapie comportamentali mirate a facilitare la trasformazione del reo, a partire dal momento in cui acquisisce consapevolezza di ciò che è accaduto, delle conseguenze dannose e della sofferenza che ha causato[10].
Un ruolo cruciale in questo contesto è giocato dal sentimento di vergogna, in particolare dalla teoria della vergogna reintegrativa.
Questo dimostra l'efficacia superiore delle pratiche di giustizia riparativa rispetto ai tradizionali procedimenti penali, poiché mettono al centro dell'analisi l'evento invece della persona.
Inoltre, il reo non si sentirà né giudicato da figure istituzionali che potrebbe non rispettare, come il giudice o la polizia, né etichettato come "soggetto sgradito". Forme di stigmatizzazione comunemente derivanti dai procedimenti penali spesso generano reazioni di sfida verso l'ordinamento.
Con l'applicazione del paradigma riparativo, durante gli incontri e il dialogo, in presenza della persona offesa e talvolta dei suoi familiari, il reo percepisce il senso di vergogna nei suoi confronti.
In questo contesto, la vergogna non è considerata un elemento stigmatizzante che separa ed esclude, ma piuttosto come una condizione reintegrativa, in grado di stimolare nel reo una riflessione critica su ciò che è accaduto.
Dal punto di vista del reo, le pratiche riparative mirano a facilitare un percorso introspettivo per comprendere il male inflitto alla vittima e ridurre il rischio di recidiva.
Gli effetti positivi sull'autore del reato sono principalmente di natura psicologica e spesso portano a un effettivo cambiamento al termine della pratica.
I benefici derivanti dall'empatia e dalle emozioni sperimentate nel percorso, uniti all'uso di un linguaggio più accessibile rispetto al tecnicismo delle aule di giustizia, contribuiscono a rendere la giustizia riparativa percepita come più equa[11].
Questo processo indirizza il conflitto verso una dimensione costruttiva e stimola fattori che contenendo la devianza, influenzano positivamente la diminuzione dei tassi di recidiva.
Tuttavia, sarebbe improprio sostenere che la riduzione della recidiva sia uno degli obiettivi primari della giustizia riparativa, in quanto ciò rischierebbe di trascurare l'aspetto fondamentale relativo alla riparazione della vittima[12].
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[1] P. MAGGIO -F. PARISI, Giustizia riparativa con vittima "surrogata" o "aspecifica": il caso Maltesi-Fontana continua a far discutere (nota a Corte d'Assise di Busto Arsizio, ord. 19 settembre 2023, Pres. Fazio, Est. Ferrazzi), in www.sistemapenale.it, 19 ottobre 2023. G. ESPERTI, Che cos'è la giustizia riparativa, applicata per la prima volta in Italia, in www.wired.it, 22 settembre 2023.
[2] BLOUCHARD M. -FIORENTIN F., Sulla giustizia riparativa, su Questione giustizia online il 23 novembre 2021 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/sulla-giustizia-riparativa).
[3] STRABELLO P., Giustizia riparativa: Il volto della vittima e il dialogo con il reo, 5 marzo 2020, in Salvis Juribus
[4] Ibidem
[5] STRABELLO P., Giustizia riparativa: Il volto della vittima e il dialogo con il reo, 5 marzo 2020, in Salvis Juribus
[6] La teoria retributiva, così denominata perché giustifica la pena come una punizione equa in risposta a un male precedentemente commesso, rientra tra le teorie assolute. Queste concepiscono la pena come un fine in sé, indipendentemente da qualsiasi scopo esterno che essa possa perseguire. VERNAGALLO E., La filosofia della pena tra teoria retributiva e teoria rieducativa, in https://www.associazionelaic.it/ 13 febbraio 2019; MANTOVANI F. -GIOVANNI F., Diritto penale, CEDAM, 2023; CATTANEO M., Il problema filosofico della pena, Editrice Universitaria, Ferrara, 1978, pag. 7; BORGHESE S., La filosofia della pena, Giuffrè editore, Milano, 1952, pagg. 29-34; ANTOLISEI L., Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 1955, pagg. 484 -485
[7] La pena trova il suo fondamento utilitaristico poiché mira a dissuadere i membri della comunità dal compiere atti criminali. Tra i pionieri nell'individuare questo fondamento "utilitaristico", in particolare di natura "intimidatoria", si annoverano figure come J. Bentham, L. Feuerbach e, in ambito italiano, G. D. Romagnosi. Tuttavia, una prospettiva più moderna, promossa da studiosi come l'Andenaes e il Packer, ha ampliato gli effetti della pena, oltre all'effetto intimidatorio, introducendo altre funzioni.
Secondo questa linea di pensiero, la pena produce tre effetti principali: l'effetto intimidatorio, come appena menzionato; un effetto di moralizzazione ed educazione, avvicinandosi alle concezioni più moderne; infine, un effetto di orientamento sociale attraverso la creazione di standard morali che sarebbero rispettati anche da coloro che, inizialmente, potrebbero respingere il comando normativo. In questo contesto, ad esempio, Walker ha affermato che la "legislazione di una generazione può diventare la morale della generazione successiva". VERNAGALLO E., La filosofia della pena tra teoria retributiva e teoria rieducativa, in https://www.associazionelaic.it/ 13 febbraio 2019; MANTOVANI F. -GIOVANNI F., Diritto penale, CEDAM, 2023; CATTANEO M., Il problema filosofico della pena, Editrice Universitaria, Ferrara, 1978, pag. 7; BORGHESE S., La filosofia della pena, Giuffrè editore, Milano, 1952, pagg. 29-34; ANTOLISEI L., Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 1955, pagg. 484 -485
[8] La teoria della prevenzione speciale, emersa nel secolo scorso con la Scuola positiva e successivamente sviluppata dalla Nuova difesa sociale, si distingue per la sua prospettiva orientata al comportamento individuale anziché alla società nel suo complesso, rispetto alla minaccia della pena. Tanto dal punto di vista teorico quanto pratico, questa concezione rappresenta una chiara discontinuità con altre teorie, poiché da un lato mette in discussione le tre grandi conquiste di civiltà ottenute con la teoria retributiva e, dall'altro lato, sacrifica gli obiettivi intimidatori perseguiti dalla prevenzione generale. In modo più dettagliato, il complesso di misure terapeutiche e rieducativo-risocializzatrici, focalizzato sulla prevenzione speciale, mira a prevenire che l'individuo cada o reincida nel reato. Questo approccio rivisita il principio di proporzionalità, adattando la pena non più alla gravità del reato e alla colpevolezza, ma piuttosto alla personalità dell'autore. Inoltre, si mette in discussione il principio di determinatezza, poiché non è possibile conoscere in anticipo quando la pena avrà permesso la risocializzazione del condannato. Viene anche demolito il principio di inderogabilità, poiché la pena è considerata suscettibile di modifiche quantitative e qualitative nel corso della sua esecuzione. Infine, si trascurano gli intenti intimidatori, poiché la prevenzione speciale agisce quasi simultaneamente all'atto criminale, cercando di prevenire ulteriori reati da parte del condannato. In conclusione, si passa da un carattere assoluto e inesistente della pena con funzione retributiva o generale-preventiva a un approccio basato sulla "processualità" della pena. Quest'ultima viene considerata come punto di partenza di un trattamento più ampio finalizzato alla risocializzazione del condannato. VERNAGALLO E., La filosofia della pena tra teoria retributiva e teoria rieducativa, in https://www.associazionelaic.it/ 13 febbraio 2019; MANTOVANI F. -GIOVANNI F., Diritto penale, CEDAM, 2023; CATTANEO M., Il problema filosofico della pena, Editrice Universitaria, Ferrara, 1978, pag. 7; BORGHESE S., La filosofia della pena, Giuffrè editore, Milano, 1952, pagg. 29-34; ANTOLISEI L., Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 1955, pagg. 484 -485
[9] STRABELLO P., op. cit.
[10] STRABELLO P., Giustizia riparativa: Il volto della vittima e il dialogo con il reo, 5 marzo 2020, in Salvis Juribus
[11] STRABELLO P., Giustizia riparativa: Il volto della vittima e il dialogo con il reo, 5 marzo 2020, in Salvis Juribus
[12] STRABELLO P., Giustizia riparativa: Il volto della vittima e il dialogo con il reo, 5 marzo 2020, in Salvis Juribus