LE ORIGINI DELL'IMPOSTA DI REGISTRO
Dott. Luca Mariani
La registrazione degli atti ha avuto un suo primitivo riconoscimento nel Regno di Napoli durante la reggenza spagnola, dove l'impostazione tributaria trovava la propria espressione nel focatico, nel donativo e nel contributo dei feudatari per le spese di guerra (1).
Accanto ad esse, coesistevano le imposte indirette rappresentate dai diritti di dogana, i portolania, le gabelle, le imposte sul sale e i vari diritti della Pubblica Amministrazione.
Più nel dettaglio, la portolania era il tributo dovuto da coloro che occupavano in via temporanea o in modo stabile l'area comunale per fini di commercio e rappresentava investimenti in rendite statali, costituite dal ricavato dell'appalto di gabelle. Con il termine gabella si intendeva indicare, in origine, le imposte indirette sugli scambi e sui consumi di merci, le quali venivano riscosse dai c.d gabellieri, esattori particolarmente invisi alla popolazione, i quali rivestivano una posizione a metà tra l'ufficiale pubblico e il libero concessionario in proprio.
Senza dilungarsi troppo, e ai fini del presente contributo, è appena il caso di ricordare che già in epoca angioina esistevano diritto di registro da versare in caso di giudizi incardinati presso la Gran Corte della Vicaria.
Tali diritti, sebbene in misura diversa, furono riscossi anche sotto il governo degli Aragona. Dal punto di vista storico, i primi tentativi per introdurre nel Regno di Napoli una normativa relativa a quella del registro e ipotecaria risalgono al 29 giugno 1536. Tuttavia, tale tentativo ebbe scarsa applicazione così come pari sorte ebbe la legge di qualche anno dopo finalizzata ad istituire pubblici registri nei quali si sarebbe dovuto riportare, entro due mesi dalla stipulazione, i contratti di donazione, i fedecommessi e i vincoli.
Un secolo più tardi, una prammatica del 25 gennaio 1640 introdusse per la prima volta nel Regno, e soltanto per cinque anni, un diritto dell'1% sopra ogni tipologia di contratti. A tale trattamento furono sottoposti, tra gli altri, i testamenti, i codicilli e i legati (oggi soggetti invece all'imposta successoria).
Tale normativa prevedeva disposizioni severe nei confronti degli inadempienti: non soltanto nei confronti delle due parti, bensì anche nei riguardi del notaio, nei confronti del quale era comminata la sospensione dall'ufficio per una durata quinquennale.
Vi è da dire che furono necessari diversi anni affinché la registrazione degli atti ricevesse una sistemazione organica e anche un accoglimento da parte degli addetti ai lavori. In tal senso, nel 1809 si giunse all'emanazione di una legge regolatrice di tale procedura. Tuttavia, anche tale tentativo si rivelò insoddisfacente: in particolare, la questione era relativa all'interpretazione degli atti presentati per la registrazione, per cui si sentì il bisogno di istituire un corpo di impiegati in grado di svolgere compiti relativi alla registrazione degli atti.
Un ostacolo che si presentò fu quello relativo agli abusi e agli errori compiuti da tali soggetti nell'applicazione della legge, per cui fu necessario irrogare sanzioni al fine di punire i trasgressori. Il Ministro delle Finanze del tempo giustificò tale comportamento anomalo imputandolo non tanto alla "mala fede dei preposti", quanto piuttosto alla "difficoltà della nuova procedura la quale non è ancora entrata nella coscienza dei popoli e non ancora è diventata maneggevole strumento da parte dei preposti alla sua applicazione".
Tale situazione spinse il Governo ad istituire dei criteri di tirocinio presso gli uffici di registrazione, per coloro che fossero indirizzati in tali compiti. A settembre.
La storia moderna dell'imposta di registro ebbe invece inizio nella Francia rivoluzionaria allorquando, tra le diverse riforme, venne riordinato un complesso di prelievi eterogeneo dal punto di vista della funzione.
Innanzitutto, sopravvivevano in Francia alcuni "diritti di signoraggio" di stampo feudale, la cui introduzione aveva provveduto a controbilanciare la perdita del carattere di personalità e temporaneità originariamente proprio dei diritti di signoria. Pertanto, si era di fronte a prelievi - non erariali, in quanto posti in favore del feudatario - che venivano applicati in occasione dei trasferimenti della proprietà inter vivos o mortis causa.
A tali tributi, si aggiunsero con il passare del tempo altre tipologie di prelievo (di natura più propriamente tributaria) in favore della Corona, rappresentati, da un lato, da alcune tasse tipicamente d'atto, vala dire dovuto per un servizio - quello della registrazione - finalizzato a mettere l'atto "à l'abri de doutes et des suppositions" (2).
Il riferimento è al "droit de sceu" (che in un primo momento remunerava la prestazione dei pubblici ufficiali incaricati dell'apposizione del sigillo sugli atti e sulle sentenze), del "droit de controle" e del "droit de insinuation", riguardante la registrazione delle donazioni. Inoltre, si trattava della "centième dernier", introdotta da Luigi XIV ed applicata in relazione ai trasferimenti di diritti immobiliari, considerata quale imposta sui trasferimenti, ovvero un droit de mutation.
I prelievi e i tributi menzionati vennero sottoposti a riordino ad opera del Decreto del 19 dicembre 1790 n. 5, il quale, abrogando un complesso di imposte previgenti, prevedeva per prima cosa la formalità della registrazione per gli atti notarili e degli ufficiali giudiziari, gli atti giudiziari in genere e gli atti privati al fine di "assicurarne l'esistenza e constatarne la data" e, inoltre, associava a tale formalità la percezione di un tributo nella misura stabilita dai successivi articoli.
Mediante la riforma, che venne attuata nel 1798, l'impostazione originaria fu ribaltata soltanto in via apparente: i primi articoli esordiscono indicando, quale oggetto della legge, i "diritti di registrazione", i quali vengono distinti nelle due categorie dei diritti "fissi e proporzionali" specificando che essi dovevano applicarsi a seconda che l'atto contenesse o meno "obbligazioni, liberazioni, condanne, collocazioni o liquidazioni di somme e valori e per tutte le trasmissioni della proprietà", nonché rinviando al successivo art. 69 per la misura dell'imposta proporzionale. Pertanto, la formalità della registrazione veniva posta, almeno a prima vista, in maggior evidenza rispetto al testo anteriore.
In Italia, il R.D. 14 luglio 1866, n. 3121 prevedeva che gli atti sono soggetti "a registrazione e ad imposta" secondo le successive prescrizioni (ponendo sullo stesso piano la formalità della registrazione e l'applicazione della imposta); inoltre, se la fattispecie dell'imposta era indicata con l'utilizzo della seguente formula "gli atti che contengono obbligazione o liberazione di cose o somme, e qualunque trasmissione di proprietà, di usufrutto, uso e godimento di beni mobili ed immobili e di qualsiasi altro diritto reale", la stessa veniva subito integrata mediante il rinvio, recato nell'art. 4 dello stesso decreto, alla tariffa "che forma parte integrante del presente decreto e indica gli atti e le trasmissioni soggette a imposta proporzionale, graduale e fissa" (3).
Pertanto, in definita, si poneva in rilievo il riferimento all'atto, per come individuato nella tariffa, che non fissava solo la misura dell'imposta, bensì anche gli atti e le trasmissioni soggette ad imposta.
Tali caratteristiche vennero rimarcate e confermate dalla successiva evoluzione normativa. Difatti, il Testo Unico dell'imposta di registro - ovvero il R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, prendeva le mosse proprio dal rinvio alla Tariffa per l'individuazione degli atti soggetti a registrazione in termine fisso o in caso d'uso, determinando in tal modo la sostanziale prevalenza di tale indicazione e del relativo obbligo di registrazione (4).
Tuttavia, residuava la definizione generale del contenuto degli atti e la graduazione dell'imposta (e dei modi di determinazione: fissa, graduale o proporzionale), in dipendenza del contenuto più o meno dispositivo dell'atto.
Tuttavia, anche in tale ultima indicazione "estensiva" ebbe vita breve. Ed invero, mediante il D.P.R. n. 634 del 26 ottobre 1972 e con l'attuale D.P.R. n. 131 del 1986 è venuta meno la definizione generale, residuando soltanto il rinvio alla Tariffa nell'art. 2 al fine di individuare gli atti soggetti a registrazione.
Peraltro, l'art. 1 riferisce, in via immediata, l'applicazione dell'imposta non all'atto e al suo contenuto, bensì alla sua registrazione (obbligatoria o volontaria).
L'evoluzione normativa che è stata ripercorsa dovrebbe considerare il motivo per cui l'art. 1, nella sua odierna formulazione, presenta una valenza descrittiva piuttosto che prescrittiva. Ed infatti, esso si limita all'enunciazione del principio generale per cui l'imposta presenta ad oggetto gli atti soggetti a registrazione e quelli presentati volontariamente per la registrazione, individuando in tale formalità il fatto che, nella complessiva disciplina dell'imposta, determina l'insorgenza dell'obbligazione avente ad oggetto il pagamento dell'imposta (5).
Tuttavia, sono le successive disposizioni a definire in maniera compiuta sia i casi nei quali è obbligatoria la registrazione, sia la complessiva fattispecie del tributo.
Peraltro, si tratta di un'operazione non di certo agevole, da una parte in quanto l'individuazione delle disposizioni logicamente sovraordinate - vale a dire quelle rispetto alle quali le altre dovrebbero essere armonizzate e che hanno prevalenza in caso di apparente contrasto - è rimessa alla sensibilità dell'interprete, dall'altra in quanto, sebbene le variazioni della disciplina siano state, nel tempo, piuttosto contenute, il sistema tributario complessivamente considerato e la realtà economica e sociale si sono profondamente modificati.
Pertanto, malgrado l'imposta di registro presenti ancora le caratteristiche tipiche di un tributo che considera le modificazioni patrimoniali nella prospettiva degli atti soggetti a registrazione e delle disposizioni, autonomamente considerate, nella stessa contenute, la sensibilità degli operatori conferisce rilievo primario al "negozio" e, attualmente, forse ad "operazioni economiche".
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1 Cfr. CANE' B., Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all'art. 20 del T.U registro, in Rass. Trib., 2016, p. 649.
2 Cfr. l'editto di Blois del 1581.
3 Cfr. UCKMAR A., La legge di registro, Padova, 1943, p. 224.
4 Cfr. RASTRELLO L., Il tributo di registro, Roma, 2005, p. 417.
5 Si veda CANNIZZARO S., La registrazione d'ufficio e l'enunciazione nell'imposta di registro, in CNN Studio, n. 208, 2010.