LO SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO NEI DIRITTI RELIGIOSI
Dott.ssa Filomena Anatriello
In questo elaborato verra' effettuata un'indagine comparativa tra i diversi istituti e le differenti modalità di scioglimento del matrimonio nel diritto canonico, ebraico ed islamico, mettendo in atto un'indagine comparativa da cui si evincono similitudini, differenze e conseguenze dello scioglimento del matrimonio nei tre suddetti diritti religiosi.
Partendo dall'atto di ripudio, questo cristallizza una percezione androcratica del matrimonio, esprimendo la massimizzazione dell'esercizio unilaterale della libertà matrimoniale in uscita; il ripudio è un atto che rientra nell'autonomia privata e non necessita di una giustificazione per il fallimento del rapporto coniugale. Esso può essere considerato simile ad una sorta di recesso unilaterale, che facilmente sconfina nell'arbitrio, ed è suscettibile di essere revocato, ma mette i coniugi in una posizione asimmetrica. Infatti, nell'ambito di un processo di riparificazione dei coniugi, gli ordinamenti confessionali sono tuttavia orientati ad un processo di netta o graduale limitazione del riconoscimento della facoltà di ripudio. L'ordinamento canonico, ad esempio, nega assolutamente tale facoltà, blindando il principio di indissolubilità, riconoscendo così indirettamente pari dignità alla donna. Tale posizione canonistica si pone in netto contrasto con quelle concezioni culturali che valutavano la donna in base alla sua utilità riproduttiva e si discosta dalla visione finalizzata alla procreatività tipica delle popolazioni medio-orientali (comunità ebraiche ed islamiche), ove l'unione sterile veniva considerata una vergogna e un segno di contrarietà divina, tale da giustificare forme di congiungimento extra-coniugale.
Altri ordinamenti confessionali cercano di ridimensionare la libertà unilaterale in uscita, utilizzando una pluralità di tecniche. In effetti, da un modello di giustizia privata, il diritto ebraico ed islamico si vanno riposizionando verso modelli di giustizia pubblicamente ratificata o asseverata, dove emerge l'esigenza dell'intervento mediatorio di una terza autorità o comunque della ricorrenza di motivi che giustifichino l'intenzione di volersi svincolare da un legame insoddisfacente. Questa transizione risulta graduata da una fase intermedia, ove viene accolto un modello di giustizia negoziata, che accoglie istanze corretivo/compensatorie della disparità dei coniugi e consente un riposizionamento della donna nell'ambito del coniugio. Mentre, dunque, in altre esperienze confessionali vengono valorizzate le tecniche improntate ad una gestione negoziata delle controversie coniugali, per trovare soluzioni conciliative e interne al sistema giuridico/religioso, da parte della Chiesa Cattolica traspare, invece, una sostanziale abdicazione ad intervenire nella fase in cui sarebbe ancora possibile ricomporre i conflitti coniugali.
Si è andati incontro a sempre nuove e diverse spinte centrifughe per fronteggiare un graduale sfaldamento del principio di indissolubilità, ma l'unico rimedio canonicamente accettabile nell'eventualità della disgregazione dell'unione è l'istituto della separazione, che potrebbe richiamare la fattispecie ebraica delle agunot: infatti anche qui i coniugi possono percepirsi come "incatenati" ad un legame coniugale ormai di fatto naufragato.
Tuttavia, i presupposti da cui partono i due ordinamenti sono diversi. Infatti, nel diritto ebraico, è qualificata come agunà la donna che dal punto di vista religioso ha diritto allo scioglimento del matrimonio, ma le è impossibile ricevere il documento di divorzio per cause esterne alla sua volontà. Nel diritto canonico la separazione, invece, può verificarsi per richiesta di uno solo dei coniugi, ma è insita in essa la possibilità/necessità della ricostituzione della comunione coniugale, sia perché la separazione in virtù della causa che la giustifica, può avere carattere temporaneo, sia in quanto anche se avesse carattere permanente, la Chiesa incoraggia la rinuncia allo stato di separazione e la riammissione del coniuge colpevole alla vita coniugale.
Il matrimonio svolge un precipuo ruolo sociale di controllo sulla vita sessuale, soprattutto femminile, volto ad assicurare la perpetuazione del gruppo e la legittimità della prole, per cui la patologia matrimoniale può derivare non solo da fattori esterni ma anche da disfunzioni interne alla coppia. L'ordinamento canonico adotta percorsi diversi con riguardo, per un verso, alla consumazione coniugale, la cui importanza è tale al punto che intorno alla sua mancanza si costruisce l'unica ipotesi confessionalmente ammessa di scioglimento coniugale, e con riferimento, per un altro verso, all'impedimento a contrarre matrimonio da impotenza (a cui sono ricondotte una serie di patologie che producono l'impossibilità di consumare il matrimonio). Nel diritto canonico all'impotenza viene dato un rilievo diverso da quello che essa assume in ambito civilistico: qualora essa sia perpetua e antecedente, infatti, è tuttora indicata fra gli impedimenti matrimoniali (can.1084). Gli altri ordinamenti confessionali, pur non evocando lo stesso valore simbolico/sacramentale dell'una caro, attribuiscono un rilievo indiretto all'ipotesi dell'inconsumazione e talvolta lo considerano come un elemento che può influire sulle condizioni, anche patrimoniali, dello scioglimento del vincolo. In essi risulta meno accentuata la distinzione di trattamento fra impotenza ed inconsumazione forse perché la disciplina è prevalentemente riportata sullo scioglimento del vincolo, ma l'attenzione è soffermata sui vizi che rendono impossibile l'unione fisica, suscettibile di produrre il disgiungimento coniugale. L'inconsumazione assume rilievo in conseguenza ad un difetto di uno dei due coniugi che legittima lo scioglimento del vincolo, ma anche come astensione colpevole, qualora un coniuge si sottragga al dovere coniugale al punto da rendere intollerabile la prosecuzione della vita coniugale. Questa prospettiva è quella più vicina agli ordinamenti secolari moderni.
Il desiderio del mantenimento di una omogamia confessionale volto ad ostacolare la formazione di unioni miste, è idoneo a giustificare o favorire forme di scioglimento del matrimonio contro la volontà di uno o di entrambi i coniugi, senza chiedere necessariamente l'intervento dell'autorità confessionale, nelle ipotesi in cui vi sia stata un'induzione a trasgredire i divieti posti dalla propria appartenenza confessionale. Alle modalità repressive ed alle misure di cautela volte a prevenire forme di abiura strumentale, si contrappongono le forme di scioglimento volte invece a favorire la diffusione della fede, ove il fine superiore diviene giustificativo del riconoscimento di una libertà matrimoniale in uscita che affranca il coniuge fedele da una unione fallita. Tuttavia permane un dubbio circa la possibilità di utilizzare l'espressione divorzio in ipotesi in cui lo scioglimento non avviene tramite procedure che coinvolgono attivamente le posizioni di entrambi i soggetti interessati, ma privilegiano solo il benessere spirituale della parte credente.
Nel diritto ebraico, il matrimonio fra due apostatati viene considerato valido. Ad essere maggiormente problematica è l'apostasia unilaterale, in quanto l'ebreo non è abilitato ad abdicare alla propria appartenenza confessionale. L'apostasia del marito permette ad una donna di chiedere il rilascio del ghet; se l'uomo rifiuta e il tribunale rabbinico non riesce ad imporglielo, essa è legittimata a rivolgersi ad un tribunale non-rabbinico che può utilizzare strumenti coercitivi per indurre il rilascio. Il ricorso a tale modalità di scioglimento in forma obbligatoria va riconnesso, in senso ampio, al verificarsi di comportamenti con cui l'uomo induce la donna a disattendere i precetti della religione ebraica, in una prospettiva che avvicina questa ipotesi a quella canonistica della contumelia creatoris, anticipandola. Infatti non va trascurato il fatto che tra i motivi di divorzio nel diritto ebraico sono ricompresi anche i profili attinenti alla cattiva condotta nell'area delle regole strettamente confessionali (come la consapevole induzione all'infrazione o all'inosservanza dei doveri religiosi). Peculiari ipotesi di scioglimento sono connesse anche al trasferimento in Israele imposto da una parte o all'abbandono della Terra Santa: viene infatti riconosciuta la possibilità di dissoluzione del vincolo e risulterà penalizzata economicamente la parte recalcitrante a vivere più pienamente l'ideale religioso, con l'obbligo di pagare la ketubà o la perdita della stessa.
Uno dei problemi più sentiti nel diritto ebraico risulta il rapporto tra l'apostasia e l'obbligo levirato. Nel caso in cui un uomo sia morto senza avere figli, la vedova/cognata dovrà essere sposata dal fratello del defunto o liberata tramite la cerimonia della chalizà, pena il divieto per la donna di contrarre nuovo matrimonio. Tale obbligo non si estingue in conseguenza dell'apostasia di colui che è tenuto alla cerimonia dello "scalzamento", il che può rivelarsi problematico nel caso di rifiuto dell'apostata, condannando la vedova allo stato di agunà o esigendo un prezzo in termini economici per la sua liberazione.
Nel diritto islamico, l'apostasia, che presenta un carattere penalmente e civilmente rilevante, risulta produttiva di effetti negativamente connotati sul vincolo coniugale. La conversione di ciascuno dei coniugi ad un'altra fede determina lo scioglimento del matrimonio. Tale scioglimento per abbandono della fede non è esente da sanzioni che ricadono sul piano patrimoniale e successorio. Analogamente, se il coniuge non-musulmano rifiuta di aderire all'Islam, qualora la moglie si converta, il matrimonio dovrà essere sciolto. Queste previsioni dissolutive hanno offerto talora alle donne una opportunità di liberarsi da un vincolo coniugale insoddisfacente. Nel diritto canonico, invece, l'apostasia non giustifica lo scioglimento del matrimonio, in ragione della sua sacramentalità. In età medioevale viene formalizzata la dottrina ecclesiastico/teolologica riguardante il privilegio paolino. L'ipotesi della contumelia creatoris viene considerata come rigorosa interpretazione del testo paolino, legata solo all'ipotesi del matrimonio di due infedeli, di cui uno si converta, mentre l'altra si separa, non estensibile al caso di abiura di uno dei coniugi susseguente al matrimonio-sacramento. Pertanto è escluso che una situazione di questo tipo possa consentire l'estensione del regime dell'eccezione previsto dal privilegio paolino: per cui, al coniuge credente, sia pure abbandonato dal coniuge divenuto eretico o pagano è interdetta la possibilità di contrarre nuove nozze. Si delinea così un ritorno alla tradizionale distinzione fra matrimonio fra infedeli e abiura nell'ambito di un matrimonio cristiano. Tale sintesi dottrinale si consolida nella successiva prassi pontificia e lo scioglimento del matrimonio contratto da due cristiani per eresia o apostasia viene infine anatemizzato dal Concilio di Trento.
I diversi regimi matrimoniali confessionali sperimentano oggi l'inabilità del modello contrattuale a riassorbire l'insieme delle variabili di una vita coniugale percepita non più soltanto nella sua dimensione fisicistica. Nel diritto canonico, l'irriducibilità del matrimonio nella mera struttura contrattuale, e la conseguente esigenza di una rivisitazione dei nuovi capi di nullità e di quelli tradizionali, viene emblematizzata nel paradosso della forzatura nello schema della nullità di quei vizi che sembrano attenere talora più al rapporto che all'atto, e che il diritto canonico, come anche quello civile contempla nell'ambito della possibilità di ricorrere ad una peculiare actio rescissoria (can.125-1256 C.i.c). In altre esperienze giuridiche, non solo secolari, alcuni vizi vengono ricondotti al rapporto, piuttosto che all'atto, sia per liberare i coniugi da una vicenda ormai fallita, sia per garantire alla donna la maggiore tutela patrimoniale offerta dal divorzio rispetto a quella derivante dalla dichiarazione di nullità matrimoniale. Nei diritti confessionali ebraico ed islamico, dal momento che manca il carattere della sacramentalità del matrimonio, è minore l'esigenza di ricorrere a forme di invalidità per dare rilievo ai vizi del consenso. La tecnica del divorzio assicura alla donna non solo un miglior trattamento economico post-coniugale, in un'ottica risarcitoria del fallimento matrimoniale, ma offre anche una maggiore certezza sulla permanenza o no dello status coniugale.
La ricerca volta ad ampliare le possibilità di scioglimento del matrimonio allo scopo di liberare i coniugi da vincolo altrimenti non dissolubile, non è però una priorità solo del diritto canonico. Lo strumento delle nullità è uno strumento utilizzato in maniera strategica che amplia i poteri dell'autorità confessionale sul contratto coniugale, sottraendo all'autonomia delle parti l'arbitrio dell'esercizio della libertà in uscita, offrendo così al diritto confessionale una soluzione interna per le unioni fallite o claudicanti. Un tratto comune ai tre ordinamenti confessionali esaminati può identificarsi nella tendenza alla graduale transazione dall'enfasi posta sui capi di nullità/divorzio di carattere oggettivo/contrattuale alla valorizzazione dei motivi che mettono in primo piano la dimensione affettiva della vita coniugale. Questi motivi esprimono il passaggio da una visione contrattualistica del matrimonio ad una maggiormente personalistica, ma questo indirizzo personalistico si declina diversamente nei tre diversi ordinamenti confessionali. L'amore coniugale viene precipuamente in correlazione alla violazione dei doveri coniugali che produce nell'Islam e nell'Ebraismo un danno alla persona, infatti qui alcuni obblighi matrimoniali vengono tutelati sia in una prospettiva pubblicistica, sia specificamente negoziati, e quindi il loro inadempimento legittima la possibilità di uscita dal vincolo coniugale. Nell'ordinamento canonico, sebbene il Concilio Vaticano II abbia posto l'accento sulla dimensione affettiva della coppia, i redattori del Codice del 1983 non hanno tuttavia voluto fornire una esplicita giuridicizzazione all'amore coniugale. La prospettiva canonistica protende più che altro verso una ricostruzione di quelle dinamiche che risultano espressive di profondi disagi psicologici, e possono causare una incapacità del soggetto di prestare un valido consenso o di rappresentarne le conseguenze, ad esempio patologie di diversa natura psichica che impediscono di assumere obblighi derivanti dal matrimonio.