LA QUESTIONE DI FIDUCIA NEL QUADRO DELLA FORMA DI GOVERNO ITALIANA
Dott. Luca Mariani
I commi 1 e 2 dell'art. 94 della Costituzione, dispongono che «Il governo deve avere la fiducia delle Camere» e che «Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale».
Le norme costituzionali investono due soggetti: il Parlamento (le due Camere) e il Governo e prevedono che l'esistenza di una fiducia «accordata» in via preventiva dal Parlamento sia una condizione necessaria per l'assunzione, da parte dell'esecutivo, della funzione di governo e per il suo svolgimento. Inoltre le norme prevedono che, una volta concessa la fiducia (secondo una procedura descritta nei successivi tre commi dell'art. 94), essa deve permanere fino quando non sia intervenuta una sua revoca; nonché la revoca della fiducia è accordata dall'Organo che la ha concessa.
L'art. 94 indica come motore per la costituzione e la revoca del rapporto di fiducia il Parlamento. Sulla necessaria esistenza di questo rapporto si innesta l'esigenza che anche il governo possa accertare in ogni momento la permanenza di una maggioranza a suo favore, ponendo la «questione di fiducia».
Sebbene nell'art. 94 non sia definito il significato del termine fiducia, si può dire che essa si fonda su un rapporto che ha da oltre un secolo legato il Parlamento e il Governo. Il rapporto esprime una necessaria consonanza tra l'attività (politica), che il Governo illustra nel suo programma a ciascuna Camera, e quella (tecnico/politica) del Parlamento che dovrebbe dare alla prima attuazione. Si tratta di una formale dichiarazione del Governo al Parlamento, preceduta da una decisione del Consiglio dei Ministri. Con tale dichiarazione, il Governo subordina la propria permanenza in carica all'esito di una determinata votazione parlamentare. Il governo deve avere la fiducia delle Camere, che è concessa in relazione ad un programma il quale non si esaurisce nel momento iniziale, bensì continua a spiegare i propri effetti per tutto il tempo del mandato di governo.
Con l'avvento del regime maggioritario, vi è stata una svolta nella percezione giuridico-istituzionale della questione di fiducia: il ricorso all'uso di tale strumento non è più percepito - come in passato - quale sintomo di debolezza dei Governi. Al contrario, è considerato una normale manifestazione di tenuta dell'Esecutivo, che in tal modo rivendica l'efficacia normativa dell'indirizzo programmatico approvato dal corpo elettorale rispetto alle spinte frazionistiche presenti nella comunità parlamentare». La questione di fiducia è dunque così diventata, negli anni, più che una rivendicazione di responsabilità del Governo, una riaffermazione del suo potere-guida.
La Costituzione obbliga il Governo alle dimissioni dinanzi al "non ottenimento" della fiducia, iniziale o incidentale, ma le esclude per ogni altra ipotesi di "voto contrario" (art. 94, comma 4). Nulla impedisce però che il Governo possa comunque legare la propria sopravvivenza politica all'esito di un determinato voto, anche senza ricorrere formalmente ad alcuno strumento giuridico (c.d "pseudo-questione di fiducia").
Prima dell'approvazione della Costituzione, l'istituto della questione di fiducia si era già affermato in epoca statutaria in via di prassi traendo spunto dall'esperienza francese, non essendo peraltro prevista nello Statuto Albertino o nei regolamenti parlamentari nemmeno la fiducia iniziale. Se ne deduceva la ratio sulla base di altri istituti, quali la controfirma ministeriale e la responsabilità politica dei Ministri. Non si riconosceva l'esistenza di uno strumento "questione di fiducia" ma piuttosto la possibilità per il Governo di dimettersi dopo aver provocato un voto di fiducia in Parlamento. Pertanto, non si era avvertita la necessità di codificare l'istituto: né in Costituzione, né nei "nuovi" regolamenti parlamentari di Camera e Senato vi erano norme volte a disciplinare la questione di fiducia, a differenza degli altri procedimenti fiduciari. Bisogna perciò risalire al primo parlamento repubblicano perché la prassi faccia propria la logica implicita nelle nuove norme costituzionali e nella tradizione statutaria. I principali effetti procedurali della questione di fiducia, che trovano peraltro il loro fondamento nel rapporto fiduciario governo-parlamento, sono i seguenti: a) la priorità di votazione dell'oggetto sul quale la questione di fiducia è posta; b) la votazione a maggioranza semplice, secondo la regola generale per le votazioni in Assemblea (articolo 64 Cost.); c) il principio del voto palese per appello nominale: ogni parlamentare è chiamato ad esprimere il proprio voto in maniera inequivocabile e manifesta, pubblica e solenne, assumendosi la responsabilità della propria scelta davanti al proprio gruppo, al Parlamento intero e agli elettori; d) l'inemendabilità e l'indivisibilità dell'oggetto della votazione sul quale è posta la questione di fiducia; e) l'obbligatorietà di dimissioni per il Governo, che subisce la sfiducia, con l'apertura di una crisi parlamentare.
Tra gli elementi essenziali non vi è ricompresa invece la motivazione, propria certamente di altri strumenti fiduciari come la mozione di fiducia e quella di sfiducia. Elemento, quello della motivazione, che la dottrina ha da tempo ritenuto applicabile anche alla questione di fiducia, in nome di un maggior controllo e un minor abuso. Tenendo presente dunque gli effetti tipici della questione di fiducia, è possibile osservarne le varianti procedurali. L'oggetto della questione di fiducia può collocarsi sia all'interno del procedimento legislativo (su un articolo di un disegno di legge, su un emendamento, su un articolo unico) sia al di fuori di tale procedimento (su una mozione, su una risoluzione, su un ordine del giorno di istruzione al Governo).
Sono due le fattispecie più interessanti, di cui qui si vuol dare conto, per una riflessione sulla "normalizzazione" della questione di fiducia: in primo luogo quella, più frequente, in cui essa è posta su un (maxi)emendamento a un progetto legislativo; in secondo luogo quella, più recente, quando è posta sull'approvazione di un progetto di riforma elettorale. Quanto alla prima fattispecie, la disciplina dell'emendamento nel procedimento legislativo trova corrispondenza con quella della questione di fiducia, legittimata in virtù di una lettura «in controluce» dell'articolo 94. Il Governo può, infatti, porre la questione di fiducia su qualsiasi emendamento, anche presentato da altri soggetti, quando ritenga che la sua approvazione sia vitale per la permanenza del rapporto fiduciario con le Camere. L'accorpamento di più emendamenti in un singolo maxi-emendamento non si sviluppa solo in funzione anti-ostruzionistica, anzi si sono manifestati casi di vera e propria «necessità» di ricorso a tale associazione.
È bene chiarire infatti che i maxiemendamenti abbinati alla questione di fiducia vengono a costituire un «unicum concettualmente inscindibile», proprio perché il maxi-emendamento si avvale dell'indivisibilità determinata dalla posizione della fiducia, al fine di mantenere l'integrità in sede di votazione ed evitare la votazione per parti separate, con il rischio di uno snaturamento dell'originaria proposta del Governo. Con l'abbinamento - maxi-emendamenti e questione di fiducia - si verifica però un aggiramento del vincolo costituzionale dell'esame, nel procedimento legislativo, articolo per articolo. Perché è il Governo a definire il testo da sottoporre alla votazione fiduciaria dell'Assemblea, composto dalla parte non ancora votata del disegno di legge, modificato in accoglimento di alcuni emendamenti già presentati (e di uno, sull'entrata in vigore, presentato dal governo contestualmente alla posizione della fiducia). L'uso dei maxi-emendamenti, sempre più spesso abbinati al ricorso alla questione di fiducia, accelera sì le procedure parlamentari ma produce anche distorsioni, veri e propri "frutti avvelenati", facili da cogliere ma letali per le loro conseguenze. Quanto alla seconda fattispecie che qui si intende richiamare, la questione di fiducia può essere posta anche sul mantenimento dell'articolo di un progetto di legge, con alcune importanti differenze, però, nella disciplina regolamentare tra Camera e Senato.
Alla Camera, se il progetto consiste di un solo articolo e su questo è posta la questione di fiducia, va comunque effettuata la votazione finale del progetto stesso (a scrutinio non più segreto ma, di regola, palese). In passato, era presente una disposizione che fino alla riforma del voto segreto nel 1988 comportava rilevanti conseguenze procedurali: «se il progetto di legge consiste in un solo articolo, il Governo può porre la questione di fiducia sull'articolo medesimo, salva la votazione finale del progetto». Questa si teneva obbligatoriamente a scrutinio segreto generando un evidente paradosso. Aveva luogo infatti una "doppia votazione": una prima votazione a scrutinio palese e una seconda e ultima votazione, questa volta a scrutinio segreto. Il tutto in violazione di uno dei principii-cardine del processo decisionale regolato dal diritto, quello del ne bis in idem. Votandosi infatti due volte sullo stesso oggetto, era ben facile che ne scaturissero due esiti diversi e dunque contrastanti, vista l'obbligatorietà del voto finale a scrutinio segreto e la relativa facilità con la quale era possibile richiederlo. In tal modo, veniva infatti lasciato campo libero ai c.d. "franchi tiratori", in grado di "affossare" il Governo sulla votazione finale, dopo aver magari confermato palesemente la fiducia nella votazione immediatamente precedente, articolo per articolo. Un paradosso, secondo la dottrina, un vero e proprio «monstrum giuridico».
Nell'esperienza parlamentare l'ipotesi di una doppia votazione con esiti contrastanti si è verificata solamente in due occasioni, con l'inevitabile conseguenza di costringere i governi Cossiga II e Craxi I alle dimissioni. In tale eventualità, infatti, qualunque scelta da parte del Governo poteva essere ricondotta ad una violazione costituzionale. Non dimettendosi avrebbe violato l'obbligo delle dimissioni in caso di voto contrario nell'ambito del rapporto fiduciario. Rassegnando le proprie dimissioni, avrebbe sminuito la portata della volontà del Parlamento, non tenendo conto del voto fiduciario ad esito positivo.