IL WEB E IL REATO DI DIFFAMAZIONE: LE CONSEGUENZE DI CIO' CHE SCRIVIAMO SU INTERNET
Dott.ssa Deborah Pascale
Chi non ha sentito, almeno una volta, utilizzare il termine "leoni da tastiera"?!
Con la nascita dei social network si è creato il luogo perfetto affinchè le persone si sentano libere di esprimere e condividere le proprie opinioni. Tuttavia, non sempre questo potente strumento, che è internet, viene utilizzato nel modo migliore. Anzi, sempre più spesso non vi sono freni inibitori.
Sarà, infatti, capitato a chiunque di vedere, sotto un post di Facebook, un commento che utilizza espressioni decisamente sopra le righe, se non offensive. Oppure di scorrere le foto di Instagram e leggere frasi non appropriate.
Non solo i social network ma qualsivoglia sito web può diventare terreno fertile per commettere un reato.
Con internet, infatti, trattandosi di un strumento che non ci mette a diretto contatto con l'interlocutore, si ha come la sensazione che sia sempre concesso dire ciò che si vuole, che ciò che viene scritto non abbia alcun valore.
Ma, attenzione, non è così!
Premesso ciò, questo articolo ha, non solo lo scopo di dare un quadro delle conseguenze giuridiche, ma altresì di sensibilizzare ad un utilizzo più cosciente dei social network e di internet nel suo genere.
L'art. 595, comma 1, c.p., riconosce la fattispecie di reato della diffamazione e punisce, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1.032, "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente [art. 594 c.p. - ingiuria], comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione".
Nei commi successivi prevede, altresì, una serie di circostanze aggravanti che, se integrate, comporterebbero un aumento della pena edittale. Infatti, il comma 2, del citato articolo, sancisce un inasprimento della pena qualora l'offesa consista "nell'attribuzione di un fatto determinato". I commi 3 e 4, invece, se l'offesa è recata "col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico", nonché, "a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio".
Si tratta di un reato che, ai sensi dell'art. 597, comma 1, c.p., "è punibile a querela della persona offesa", si precisa, inoltre che, ex art. 124 c.p., il termine perentorio per la proposizione della querela è di tre mesi, non di novanta giorni, dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato.
Il bene giuridico tutelato dalla norma è la reputazione della persona offesa. Con tale termine si intende la considerazione che i membri della società hanno della persona offesa, delle sue qualità morali, giuridiche ed umane.
In ordine all'elemento oggettivo occorre rilevare che, in quanto reato a forma libera, la condotta diffamante risulta perfezionata ogniqualvolta venga offesa la reputazione di una determinata persona, in sua assenza, comunicando con più persone e con qualsiasi mezzo idoneo.
In primo luogo, quindi, per integrare la fattispecie di cui all'art. 595 c.p. occorre l'assenza fisica dell'offeso ossia il soggetto passivo non deve percepire direttamente l'addebito diffamatorio.
Infatti, "è proprio nell'assenza, che pone il soggetto passivo nella impossibilità di replicare immediatamente all'offesa, che si è ravvisata la ratio della maggiore gravità della diffamazione, rispetto all'ingiuria, mentre il concetto di "presenza" implica necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e spettatori o almeno una situazione ad essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l'ausilio dei moderni sistemi tecnologici" (Cassazione, Sez. V, 30.1.2020, n. 12898).
Ulteriore presupposto della condotta è l'offesa intesa nel senso che le espressioni utilizzate devono essere in grado di ledere la reputazione del soggetto passivo.
La giurisprudenza chiarisce che "integra il reato di diffamazione la condotta lesiva dell'identità personale, intesa come distorsione, alterazione, travisamento od offuscamento del patrimonio intellettuale, politico religioso, sociale, ideologico o professionale dell'individuo o della persona giuridica, quando viene realizzata mediante l'offesa della reputazione dei soggetti medesimi" (Cassazione, Sez. V, 17.10.2011, n. 37383).
Peraltro, "anche le sole espressioni dubitative, specie nella forma dell'insinuazione, possono integrare l'intento diffamatorio punito dalla norma, atteso che, qualunque sia la forma grammaticale o sintattica della frase offensiva, ciò che conta è la concreta capacità di ledere o di mettere in pericolo l'altrui reputazione, non solo mediante l'attribuzione di un fatto illecito posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, ma anche mediante la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio" (Cassazione, Sez. V, 31.1.2014, n.18982).
L'accertamento della punibilità dell'imputato a titolo di diffamazione "implica in primo luogo la valutazione diretta a stabilire se il contenuto della comunicazione rivolta a più persone rechi in sé la portata lesiva della reputazione altrui, che costituisce il proprium del reato contestato" (Cassazione, Sez. V, 16.10.2019, n. 11913).
Infine, rileva che l'offesa sia divulgata a più persone. Per aversi tale requisito occorre che il soggetto attivo renda partecipi dell'addebito diffamatorio almeno due persone, le quali siano state in grado di percepire l'offesa e di comprenderne il significato.
L'elemento della comunicazione con più persone, richiesto dalla norma ai fini della sussistenza del delitto di diffamazione, "non richiede che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti" (Cassazione, Sez. V, 4.11.2011, n. 7408).
È necessario, quindi, che "l'autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con tali modalità che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento" (Cassazione, Sez. V, 13.10.2010, n. 36602).
Si tratta altresì di un reato di evento che si consuma, non nel momento di diffusione del messaggio offensivo, bensì, qualora vi è la percezione da parte del soggetto passivo dei termini diffamatori.
Si osserva, infine, che il comma 3, dell'art. 595, c.p., sancisce la possibilità che l'offesa possa realizzarsi a mezzo stampa, nonché, "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità".
La disposizione è sufficientemente generica da ricomprendere tutti quei comportamenti offensivi che si compiono attraverso le reti informatiche e le moderne tecniche di comunicazione, come ad esempio i social network.
Sono varie le pronunce della Corte di Cassazione che, in modo analogico, applicano l'ipotesi di diffamazione anche ai messaggi rilasciati sulla rete.
In particolare, la Suprema Corte ha chiarito che "postare un commento offensivo sulla bacheca di Facebook integra il reato di diffamazione a mezzo stampa poichè significa dare al suddetto messaggio una diffusione che potenzialmente ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sicché, laddove questo sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie aggravata del reato di diffamazione" (Cassazione, Sez. I, 28.4.2015, n. 24431; Cassazione, Sez. V, 14.11.2016, n. 4873; Cassazione, Sez. V, 23.1.2017, n. 8482).
Proprio in ragione del fatto che i commenti sui social network hanno una diffusione capillare e potenzialmente illimitata, la Cassazione ritiene che le offese espresse in tal modo devono ritenersi aggravate, come se commesse a mezzo stampa, ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p..
Di conseguenza, la condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione dello stesso, in considerazione della idoneità del mezzo utilizzato a determinarne la circolazione.
Affinchè sia integrata la condotta di cui all'art. 595 c.p. occorre altresì la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Infatti, sufficiente il dolo generico, anche in forma eventuale, inteso come idoneità offensiva delle espressioni utilizzate e consapevolezza di comunicare con più persone, senza che sia richiesta l'intenzione di offendere.
In tal senso, la Cassazione afferma che "in tema di delitti contro l'onore, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista l'"animus iniurandi vel diffamandi", essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente" (Cassazione, Sez. V, 23.9.2019, n. 2705; Cassazione, Sez. V, 16.10.2013, n. 8419).
In ordine al concetto di dolo generico, la giurisprudenza chiarisce che si tratta di una "mera percezione, rapportata all'uomo medio, della capacità offensiva delle espressioni adoperate, anche senza la specifica intenzione di offendere l'altrui reputazione (c.d. animus diffamandi), con la volontà di usare espressioni offensive nella consapevolezza (anche implicita) della loro astratta idoneità a ledere l'altrui reputazione, concretatasi nella coscienza e volontà dell'azione diffamatoria, che consiste nell'idoneità a porre in pericolo il bene giuridico tutelato" (Corte di Appello di Milano, 16.04.2004, n. 958).
Infine, si osserva che, in tema di diffamazione, "l'errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude il dolo richiesto dalla norma perché non ricade sugli elementi costitutivi della fattispecie, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa" (Cassazione, Sez. V, 7.10.2014 n. 47973).
Per quanto concerne le cause di giustificazione del reato di diffamazione, in linea generale, l'art. 51 c.p. riconosce l'esimente dell'adempimento di un dovere o dell'esercizio di un diritto.
Nell'ipotesi della diffamazione, infatti, la condotta può essere scriminata qualora vi sia l'esercizio di un diritto, quale può essere quello di cronaca, critica e/o satira, purché esercitati nei limiti di verità, continenza e pertinenza.
Come accade per la stampa, anche per i social network, per stabilire se viene commesso il reato di diffamazione, occorre bilanciare il diritto a conservare integra la propria reputazione con un altro altrettanto importante diritto costituzionalmente riconosciuto quale la libera manifestazione del pensiero.
In tal senso, la giurisprudenza è concorde nel precisare a quali condizioni il diritto di cronaca e/o di critica possano giustificare affermazioni potenzialmente offensive per l'altrui reputazione.
Come già precisato, l'onore e la reputazione sono diritti fondamentali della persona, così come la libertà di manifestazione del pensiero, tuttavia, "quando quel diritto venga a confliggere con questa libertà, la prevalenza andrà assegnata all'uno od all'altra a seconda che sussistano o meno: l'interesse pubblico alla diffusione della notizia o dell'opinione; la verità putativa dei fatti narrati; la continenza delle espressioni adottate. Rispettate queste tre condizioni, il diritto all'onore sarà sempre recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero" (Cassazione, Sez. III, 29.10.2019, n. 27592).
Dunque, il reato di diffamazione è scriminato qualora la condotta rispetta determinati limiti. In particolare, è necessaria la rilevanza del fatto narrato ossia l'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti esposti; la verità dei fatti narrati e/o criticati; la continenza delle espressioni usate ossia le modalità espressive, pur offensive, devono essere pacate e contenute.
Si precisa che la critica politica "può sicuramente tradursi in commenti e valutazioni di parte, quindi non necessariamente oggettivi. Tuttavia è fondamentale, per evitare che la critica si trasformi in reato, che questa si fondi comunque su fatti veri. Insomma: eventuali interpretazioni soggettive dei comportamenti di una data persona non possono in ogni caso prendere spunto da una prospettazione dei fatti opposta alla verità" (Cassazione, Sez. II, 19.12.2013, n. 51439).
Inoltre, "il legittimo esercizio del diritto di critica - anche in ambito politico, ove è consentito il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati - è pur sempre condizionato, come quello di cronaca, dal limite della continenza, intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse" (Cassazione, Sez. III, 20.1.2015, n. 841).
Infine, in tema di diffamazione a mezzo stampa, "il carattere diffamatorio di uno scritto non può essere escluso sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni in esso contenute, dovendosi, invece, giudicare la portata complessiva del medesimo con riferimento ad alcuni elementi, quali l'accostamento e l'accorpamento di notizie, l'uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico le intenderà in maniera diversa o contraria al loro significato letterale, il tono complessivo e la titolazione dell'articolo, atteso che proprio il titolo, essendo specificamente idoneo, in ragione della sua icastica perentorietà, a impressionare e fuorviare il lettore, è capace d'ingenerare giudizi lesivi dell'altrui reputazione" (Tribunale di Potenza, 20.11.2019).
Tutto ciò premesso, occorre fare molta attenzione, non solo a quello che si scrive sui social network e nel web in generale, ma altresì al modo in cui viene esposto il concetto e, soprattutto, alle espressioni che vengono utilizzate.
Infatti, come affermato dalla giurisprudenza, i social network, al pari della stampa o di qualsivoglia forma di pubblicità, sono uno strumento in grado di realizzare un ampia diffusione del messaggio e, quindi, di integrare non solo la fattispecie delittuosa di cui all'art. 595 c.p., ma il reato di diffamazione aggravato dall'utilizzo del particolare mezzo, così determinando un aumento della pena edittale.
I social network sono un potentissimo strumento solo se utilizzati nel modo giusto e non fa alcuna differenza la circostanza che davanti a noi non ci sia il nostro interlocutore ma un pc. Ciò non autorizza l'offesa. Riflettiamo.