FATTO ILLECITO INTERNAZIONALE: I SISTEMI DI AUTOTUTELA INDIVIDUALE, COLLETTIVA E NELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

01.01.2020

Adriana Fabrizio

I rapporti fra gli Stati si reggono su delicati e sottili fili che se tesi troppo, o troppo poco, possono condurre a diversi tipi di violazione del diritto internazionale. Come reagisce allora l'ordinamento giuridico internazionale a questi fatti illeciti? Cosa accade se, per esempio, uno Stato sovrano invade il territorio di un altro Stato parimenti sovrano?

Le risposte che possono darsi sono molteplici perché tanti e diversi sono gli strumenti a disposizione dei singoli Stati e della comunità internazionale.

In questo contributo si analizzeranno tre forme di reazione, o se vogliamo, rimedio ad un'aggressione da parte di uno Stato nei confronti di un altro:

  • L'autotutela individuale

  • L'autotutela collettiva

  • L'autotutela nelle organizzazioni internazionali.

Prima di passare all'analisi delle singole forme rimediali, è utile spendere qualche parola sull'evoluzione che la dottrina ha avuto sul tema, per poter comprendere meglio le varie forme di autotutela.

Secondo Anzilotti, nel momento in cui un illecito internazionale viene commesso, il rapporto originario tra i due Stati interessati (Stato offensore e Stato offeso), discendente da una norma giuridica primaria, ossia proprio quella norma che è stata violata, non viene meno, ma si modifica in virtù della nascita di una norma secondaria che ha le proprie fondamenta in quella primaria. Da questa norma secondaria discendono la pretesa per lo Stato offeso e il dovere per lo Stato offensore di riparazione, che si declina in un ripristino dello status quo ante, se possibile, nel risarcimento del danno materiale ed una soddisfazione per il danno immateriale. 

La tesi anzilottiana è stata criticata per un motivo di natura pragmatica: l'impianto teorico ha una sua logica, ma non riscontra una sua applicazione nella prassi; Kelsen, complice anche la sua dottrina positivistica, propone una rivisitazione di tale teoria, asserendo che dalla violazione non può discendere immediatamente un diritto alla riparazione, ma che quest'ultimo sia solo indiretto e secondario. 

Anzi, Kelsen sostiene che l'unico diritto immediato e diretto che sorge in campo allo Stato offeso non è altro che il diritto all'autotutela, al pari di ciò che succederebbe in un ordinamento giuridico interno con l'esecuzione forzata: gli ordinamenti interni prevedono una pena per ogni fattispecie illecita e la sua esecuzione. Parimenti al livello internazionale per ogni illecito scatterebbe una "pena" che verrebbe eseguita dallo Stato offeso immediatamente; ciò che se ne deduce, e che è anche una regola di diritto internazionale generale, è che gli Stati possono farsi giustizia da sé. La riparazione è solo eventuale e successiva, oltre che rimessa alla volontà delle parti di intraprendere negoziati o arbitrati per superare la frattura tra di essi e ristabilire i rapporti interrotti a causa dell'illecito. In realtà, sebbene la costruzione kelseniana sia sicuramente più corrispondente a quella che è la prassi consolidata, giacché l'unico mezzo immediato di difesa in mano agli Stati offesi sia proprio l'autotutela immediata, in realtà i negoziati, gli arbitrati e le conciliazioni non sono delle tappe obbligate, ed oltretutto sono spesso di difficile realizzazione; si vedano per esempio le questioni, tutt'ora aperte, tra la Russia e la Georgia o ancora la Russia e l'Ucraina sull'occupazione del territorio da parte della Russia, sulla sua ingerenza negli affari ucraini e sulla sua violazione dei diritti delle minoranze tatare in territorio di Crimea. I negoziati sono sovente lunghi ed onerosi, talvolta messi in discussione dagli Stati partecipanti sulla base delle innumerevoli regole dettate dalle varie convenzioni e dai trattati che eventualmente siano stati violati, mettendo anche in pericolo la possibilità di ottenere effettivamente una riparazione, pur prevista dal diritto internazionale generale.

L'autotutela individuale.

Conclusa questa necessaria premessa di carattere puramente dottrinale, la prima domanda da porsi è: cos'è l'autotutela? La risposta è quanto mai semplice: per autotutela si intende il farsi giustizia da sé. Contrariamente al diritto interno, nel diritto internazionale questa è la regola generale per difendersi da un illecito subito, come già detto poc'anzi.

Guardando alla prassi, è una regola molto efficiente poiché i numerosi mezzi di composizione delle controversie al livello diplomatico si sono in più occasioni dimostrati inefficaci.

L'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite ci restituisce una definizione particolare di autotutela, si potrebbe dire, una delle tante sfaccettature dell'autotutela ossia quella della legittima difesa: "Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite [...]". Analizzando questa parte dell'articolo, non si può non soffermarsi sul fatto che il diritto di autotutelarsi è definito come un diritto naturale e quindi spettante ad ogni singolo Stato in quanto tale. 

L'art. 51 inoltre indica quale sia il presupposto perché l'autotutela possa attuarsi, ovvero un attacco armato o aggressione armata; dunque non qualsiasi violazione può innescare l'autotutela, intesa in particolar modo, nel caso di autotutela individuale, come legittima difesa da un'aggressione armata, che si verifica quando lo Stato subisce un attacco da forze regolari oppure da bande irregolari o mercenari assoldati dallo Stato offensore (come pronunciato nell'art. 3 lett. g della Dichiarazione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 3314-XXIX del 14.2.1974 sulla definizione di aggressione). 

Questo presupposto infatti costituisce anche un limite all'uso della forza e alla minaccia dell'uso della forza, che per il diritto internazionale generale, consuetudinario e anche a norma dell'art. 2 par. 4 della Carta delle Nazioni Unite è normalmente vietato. Di conseguenza ogni qualvolta uno Stato subisca un attacco armato, per il diritto di legittima difesa, sarà autorizzato ad usare anche la forza. La Corte Internazionale di Giustizia si è premurata anche di dire che cosa invece non costituisce un'aggressione armata; tale non è l'assistenza fornita, sotto ogni forma (logistica, fornitura di armi, finanziamenti ecc.) alle forze ribelli che agiscono sul territorio dello Stato. Tale comportamento può tutt'al più costituire una violazione del divieto di ingerenza negli affari altrui e contestualmente una violazione minoris generis del divieto di minaccia o dell'uso della forza.

Agli inizi del nuovo millennio, conseguentemente agli attacchi al World Trade Center, con una nota dottrina, meglio conosciuta come Dottrina Bush, si è cercato di estendere l'eccezione della legittima difesa oltre i confini delineati dall'art. 51, aprendo la strada alla c.d. legittima difesa preventiva, così da giustificare le reazioni armate contro tutti quegli Stati sul cui territorio sono presenti ed operano i gruppi terroristici (si vedano gli attacchi in Iraq, Libia ed Afghanistan, contro i gruppi armati di Al Qaeda, per citare gli episodi più eclatanti). La dottrina Bush fu presentata al Congresso nel 2002 dall'omonimo presidente e consiste nella possibilità di esercizio, da parte degli USA, della legittima difesa armata ogni qualvolta ciò si renda necessario per prevenire un imminente attacco terroristico o con armi di distruzione di massa da parte di altri Stati. Tale dottrina è stata criticata aspramente in particolare dagli Stati più deboli, ma anche dall'allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, in quanto non è che una mera e rude dimostrazione di forza.

A questo punto, delineate le nozioni autotutela individuale ed attacco armato, passiamo all'esame dei rimedi che ogni Stato può attuare, nell'ambito dell'autotutela individuale.

Innanzitutto si individuano come più utilizzato strumento le contromisure (in tempi più risalenti altresì conosciute come rappresaglie, termine quest'ultimo che denota il carattere puramente afflittivo della violazione; il termine contromisura, più neutrale invece, ricomprende qualsiasi violazione usata come strumento di autotutela); queste consistono in un comportamento dello Stato leso di per sé illecito, ma che diviene lecito in quanto costituisce la reazione alla violazione commessa dallo Stato offensore; un esempio di contromisura (non implicante l'uso della forza) può essere la disapplicazione delle norme contenute in un trattato di cui i due Stati sono firmatari, e che sono state violate da uno di essi, o misure di carattere amministrativo o legislativo che si risolvono in una violazione uguale a quella perpetrata dallo Stato offensore. Le contromisure però presentano determinati limiti: il primo di questi è la proporzionalità: la violazione che viene commessa non deve essere sproporzionata rispetto a quella subita, rectius, non ci deve essere una eccessiva sproporzione tra le due violazioni, giacché è difficile che la contromisura sia totalmente identica alla violazione. Il secondo limite delle contromisure è rappresentato dallo jus cogens: se infatti ad essere violata è una norma di diritto cogente (per esempio norme di diritto umanitario o di diritti umani fondamentali), non si può rispondere ad essa nello stesso modo, nemmeno se si tratti di una violazione dello stesso tipo; quest'ulteriore limite segna pertanto anche l'ambito entro cui una contromisura diventa illegittima. Un ultimo limite è rappresentato dal previo esaurimento dei mezzi di soluzione delle controversie, ovverosia dei mezzi di conciliazione. In realtà su tale punto la dottrina e la prassi ancora dibattono molto in quanto non pacificamente accolto come limite, poiché nulla vieta ad uno Stato di adottare tutte le contromisure che nel singolo caso concreto siano strettamente necessarie; inoltre se si pensa che il più delle volte le contromisure sono degli strumenti di emergenza usati dagli Stati per difendersi nell'immediato, appare abbastanza difficile che uno Stato possa essere obbligato a sottoporre la stessa controversia a dei comitati di conciliazione o a degli arbitrati; più spesso accade che ci si rivolga direttamente, se possibile, alle Corti internazionali.

La ritorsione è uno strumento di autotutela più blando; essa consiste in un mero comportamento inamichevole, come l'interruzione o l'attenuazione dei rapporti diplomatici, economici o commerciali, sempre che ciò non sia in contrasto con dei trattati che li impongono. La dottrina maggioritaria fa rientrare nelle misure di autotutela anche la ritorsione che contiene in sé tutti i caratteri di una misura di difesa individuale; coloro che sostengono il contrario fanno leva sulla possibilità di mantenere rapporti inamichevoli a prescindere da un'eventuale violazione del diritto internazionale, non tenendo però conto della prassi che vede un utilizzo sempre più esteso della ritorsione come contromisura, in un quadro in cui questo strumento politico e diplomatico sta sempre di più divenendo uno strumento giuridico. Si deve ricordare di non confondere tuttavia le ritorsioni con le misure ex art. 41 della Carta delle Nazioni Unite, che sebbene siano del tutto identiche alle varie forme di ritorsione, fanno parte del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite.

L'autotutela collettiva.

L'autotutela collettiva differisce da quella individuale in quanto pone un altro ordine di problemi; si parta da due fondamentali nozioni: obblighi erga omnes ed obblighi erga omnes partes. I primi consistono nelle norme di diritto cogente (diritti fondamentali, principio di autodeterminazione dei popoli ecc.), e secondo la dottrina più rigorosa essi prevalgono sui trattati e rendono nulli i trattati che vi contravvengono. I secondi invece discendono dalle più importanti convenzioni ed interessano gli Stati contraenti. Proprio da questi ultimi obblighi discendono degli interrogativi che poi fondano tutta la disciplina dell'autotutela collettiva: può uno Stato che non ha subito una violazione intervenire in autotutela? E quale reazione possono porre in essere gli omnes in caso di violazione degli obblighi? Non è facile rispondervi perché questi obblighi spesso non sono forniti di sanzione, ma è lo stesso diritto internazionale generale a prevedere l'autotutela collettiva, a determinate condizioni, frutto di un lavoro intenso di interpretazione della Corte Internazionale di Giustizia; essa ha infatti stabilito che le misure, anche militari, con le quali gli Stati terzi intervengono devono essere proporzionate e necessarie rispetto alla violazione e che ci debba essere una richiesta di intervento da parte dello Stato offeso.

Esistono anche norme di diritto internazionale generale che permettono di fornire aiuti ai movimenti ed ai gruppi che lottano per la liberazione del territorio dalle dominazioni straniere e di adottare contromisure contro gli Stati offensori; la stessa Commissione di diritto internazionale ha cercato di codificare queste norme, prevedendo nel Progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato del 2001, che gli Stati non direttamente lesi possano invocare la responsabilità dello Stato offensore. Il termine invocare, in questo caso, assume un particolare significato: pretendere la cessazione dell'illecito e la riparazione nei confronti dello Stato leso o dei beneficiari della norma violata (art. 48 del Progetto), sebbene ancora oggi il Progetto nulla dica sulla possibilità di adozione di contromisure da parte dello Stato non direttamente leso e nemmeno il dibattito in merito lascia trasparire questa opportunità.

Al livello pattizio ci sono delle convenzioni che prevedono l'intervento di Stati contraenti, anche non direttamente coinvolti nella violazione, per contrastare la stessa; uno dei meccanismi sicuramente più utilizzato, anche a causa della scarsa efficacia dell'adozione di contromisure nel quadro del diritto dei trattati, è quello di prevedere la possibilità di adire una corte internazionale o di prevedere all'interno della convenzione un organo giurisdizionale competente: un esempio che si può immediatamente fare è quello della CEDU, che prevede una Corte competente per tutti gli Stati contraenti e per le materie ricomprese nella convenzione stessa, nonché sulla sua interpretazione.

L'autotutela nelle organizzazioni internazionali.

Passando alla trattazione dell'autotutela all'interno delle organizzazioni internazionali, la peculiarità da mettere subito in risalto nei sistemi di autotutela delle organizzazioni è la loro eterogeneità; esistono infatti al loro interno sistemi di composizione delle controversie, sistemi giurisdizionali e uso del diritto internazionale generale, come si vedrà.

Innanzitutto è implicita in ogni statuto delle organizzazioni internazionali la rinuncia all'inadempimento degli obblighi verso gli altri Stati membri come forma di autotutela, se non in extrema ratio e solo dopo il previo esaurimento di tutti gli altri mezzi previsti per la composizione delle controversie, ove possibile. Talvolta però i trattati costitutivi possono prevedere anche dei rimedi (il c.d. self-contained regime) di risoluzione e degli organi preposti alla risoluzione delle controversie, come per l'Unione Europea che all'art. 260 par. 2 del TFUE prevede che la Corte di Giustizia dell'UE sia l'unica competente a condannare uno Sato per inadempimento, al pagamento di una somma forfettaria o di una penalità, se questo Stato non abbia preso le misure atte ad eliminare gli effetti della violazione. Il caso dell'Unione Europea è un unicum perché questo particolare tipo di organizzazione internazionale sta acquisendo, col passare del tempo, sempre maggiore spazio legislativo, tant'è che è raro che all'interno di essa ci siano lacune riguardanti la violazione dei due Trattati (TUE e TFUE) che siano colmate con l'ausilio del diritto internazionale generale, come invece accade di norma per altre organizzazioni, come l'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) o nel quadro della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, dove molto spesso si verifica un fallimento del self- contained regime.

Il diritto internazionale è una materia in continua evoluzione; sicuramente molti di questi sistemi rimediali potranno in futuro essere sorpassati da altri metodi più efficienti; si discute e si è sempre discusso sull'opportunità di una codificazione del diritto internazionale, in particolare del diritto non scritto, proprio per garantire una certezza del diritto che in un ordinamento anarchico come quello internazionale è fondamentale, anche per il mantenimento della pace e della sicurezza mondiali. Il problema fondamentale da porsi però, se questi sono i fini, è chiedersi se davvero sia necessario codificare in maniera granitica una serie di norme che potrebbero rivelarsi inefficaci nelle situazioni più disparate che la comunità internazionale si trova ad affrontare di giorno in giorno; bisogna chiedersi se sia necessario codificare delle norme che potrebbero creare forse ancora più caos; questa codificazione è efficiente? Ci sono degli esempi che non lasciano ben sperare circa l'efficacia di un diritto internazionale scritto, e mi riferisco al sistema di sicurezza dell'ONU che, pur codificato nella Carta delle Nazioni Unite ha dimostrato più volte la sua fallacia, creando forse più caos di quello che avrebbe dovuto fronteggiare. L'aspetto giuridico, la forma delle norme e i loro fini si intrecciano con la situazione geopolitica, con i delicati equilibri diplomatici che si instaurano tra gli Stati, e non è sicuramente una codificazione a fungere da deterrente al comportamento palesemente in contrasto col diritto internazionale di certi Stati che coscientemente commettono degli illeciti di diritto internazionale (di cui parlerò nell'articolo Gli illeciti internazionali: una panoramica sulle gross violations) con fini talvolta anche assai pretestuosi. Il diritto internazionale si evolve con l'evolversi di questi rapporti, non è la forma delle norme bensì la loro capacità di porre rimedio alle violazioni, di riparare gli effetti negativi delle stesse e di prevenirle che dovrebbe, nei prossimi anni, preoccupare gli operatori internazionali e la dottrina.